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Nuove scoperte nell'addestramento dell'Aussie



Anni fa, quando decisi che l'Australian era la razza con cui avrei voluto vivere e fare sport, questi cani non erano diffusi quanto oggigiorno. Non c'erano pubblicità con gli Australian, non gli si dedicava un mangime o un antiparassitario, non si vedevano per strada, salvo rarissimi casi. I primi allevatori li avevano già importati da anni ma, a parte nelle expo quasi sempre al nord o in qualche circolo di monta americana, era davvero difficile incontrarli. Non nel centro Italia, comunque. Poi, tempo dopo, qualche pioniere decise che forse, per qualità, aspetto e orientamento verso il lavoro, l'Aussie poteva essere usato come cane sportivo, se non al livello del Border Collie, quantomeno a quello di altre razze da pastore. L'Obedience d'altro canto non era ancora lo sport in via di diffusione che è oggi. Di gare, al centro e centro sud non ce n'erano mai, in nessun mese dell'anno. Per partecipare, bisognava farsi una trasferta per lo meno nei pressi di Firenze, se non più su. Per me quindi vedere un Aussie e per di più su un campo di gara era un evento più unico che raro. Quando presi Sidney, c'erano diversi binomi, sparsi nelle varie classi, che competevano con un Australian. Tutte linee pure da bellezza. Negli stage, quello che notai in modo lampante era che tutti manifestavano più o meno le stesse caratteristiche: serietà pari allo 0, poca concentrazione, attenzione verso tutto il contorno al campo di addestramento, poca precisione e una discreta lentezza nell'apprendere e nel fissare i concetti appresi. In generale, poca resistenza alle ripetizioni. Quando il relatore di turno vedeva entrare un Aussie in campo, programmava già mentalmente il timeout della sessione alcuni minuti prima di quanto avrebbe fatto con un cucciolo di Border. Tanto non avrebbe retto di più. E per anni, la mia idea di allenamento è stata fondata su questo concetto: buona la prima, se è vagamente buona, perché alla seconda forse non ci arriviamo interi... Sì, perché tra le altre peculiarità di questa razza c'è la creatività. Un esercizio viene appreso in un certo modo, facendo dei passetti verso l'esecuzione intera e completa di un insieme di azioni singole. E fin qui sembrano non esserci problemi. Quello che avviene dopo però è puro delirio! L'Australian non si limita a dire "ah aspetta! mi hai chiesto PORTA! lo so! devo correre verso quel coso a terra, prenderlo così e non cosà, tornare di corsa da te e rimettermi al tuo fianco, tendendo saldo finché non mi chiedi un LASCIA". Eh no! sarebbe troppo facile! l'Australian si annoia alla velocità della luce e inizia ad inserire "variazioni sul tema", rendendo frustrato e sconsolato il suo preparatore che, pur di poterlo premiare prima che, annoiato del tutto, decida di andare a prendere farfalle per i campi, torna indietro di chilometri, quasi reimpostando l'esercizio da capo. Una lotta continua contro il tempo e tentando di ottimizzare i progressi nel minor numero di ripetizioni possibili, terminando la sessione sempre allo zenith della concentrazione. Il tutto sperando anche che poi in gara non decida di ripetere gli esperimenti di decorazione dell'esercizio. Quasi per un decennio, i miei programmi self-made di allenamento hanno tenuto conto di questo. Seguivo stage e mi rinforzavo nella mia idea, vedendo che, ogni qual volta un relatore provasse a fare una ripetizione in più, il castello di carte fino ad allora costruito subiva l'attacco di una folata di vento da parte della noia e della clowneria del mio cane o di quello di un altro stagista Aussie-munito. Tutti o quasi, di sicuro 9 su 10, i conduttori di Australian che conoscevo, hanno finito per fermarsi ad un certo punto, quasi sempre in classe 2 o dopo un tot di gare in 3 senza troppi risultati, e prendere un altro cane. 9,9 volte su 10, un Border. Un cane proveniente da allevamenti di selezione sul lavoro e lo sport. Tralasciando le domande che ho iniziato a pormi in reazione a post e commenti su Facebook in cui un Aussie da show/compagnia veniva miseramente paragonato ad un Border da sport/lavoro, con un risultato deprimente, ovviamente, a carico della mia razza, ho iniziato a pensare al perché uno sport "per tutte le razze" come l'Obedience, potesse poi invece manifestarsi come riservato, almeno ad alti livelli, ad una micro.-tipologia di cane. Per qualche anno mi sono convinta che fosse perché gli Istruttori sono abituati a quelle reazioni, a quei tempi, a quel modus operandi. Di questo sono ancora oggi sicura, almeno riguardo ad alcuni di loro. Cambiare approccio, metodo, che dir si voglia, ad ogni individuo, considerando punti forti e deboli della razza, è faticoso e non prescinde dall'avere un certo livello di esperienza, creatività, capacità logiche e linearità di comunicazione. Ma qualcuno ci riusciva. In alcuni stage sentivo di essere sulla buona strada. Però poi, di nuovo, lo stallo. Gare andate così così, tendenza mia a voler capire il perché delle cose che a volte mi frena per insicurezza e paura di sbagliare, mesi di fermo dagli allenamenti, perdita di quel piacere che dovrebbe essere sempre presente quando si lavora un cane. Mille domande su di me, sulla mia gestione, più consona a cani di famiglia che sportivi, sul mio carattere un po' anarchico e troppo flessibile quando si tratta di imporre e far rispettare delle regole. Ho creduto fosse tutto lì il problema. Fino a qualche giorno fa. Ascoltando un professionista dell'Obedience, ad altissimi livelli, i più alti immaginabili, mi è balenata in mente l'idea che i tempi e la durata delle sessioni, avrebbero potuto esulare dalla capacità di concetrazione del cane, che avrebbe potuto e dovuto adeguarsi ad essi e non il contrario. Sconvolgente. Tutta un'altra cosa rispetto al mio modo di impostare il lavoro finora. Precisione richiesta sempre e sempre ai massimi livelli, impegno del cane al massimo, ripresa da ogni distrazione e insistenza nel chiedere quasi con petulanza l'esecuzione. Il non lasciare mai un errore incorretto, il non permettere mai che la noia abbia il sopravvento. Questo sistema, quasi una filosofia, unita alla mia capacità di motivare i miei cani, da sempre molto sia sul gioco che sul cibo, perché cresciuti per esserlo, mi sta sembrando vincente. L'andare sempre oltre il periodo di stanchezza o la "crisi" e non precederla. Finire con un successo a patto che abbia avuto alla base un grosso impegno da parte del cane e non quando questo è stato facile e scontato. Sono solo pochi giorni che provo questa nuova filosofia del lavoro, sono motivata e stakanovista, sto ottenendo grandi soddisfazioni da tutti e 4 i miei cani, nonostante i livelli diversi di attenzione, preparazione e le diverse inclinazioni caratteriali. Le risposte sono diverse, ovviamente, per il discorso di individualità di cui sopra, ma tutti stanno facendo attivamente dei progressi e non subendo passivamente la penetrazione nel loro comportamento di concetti che sono io a dispensare ad ognuno di loro. Ragionano. E, stranamente, non demordono. Non solo quelli di loro abituati ad allenamenti più lunghi. Ma anche la piccola di casa che di obedience finora ha fatto davvero poco e niente. Non si stancano, non si frustrano o ne sanno uscire brevemente. Non fanno i "capricci" a cui ero abituata alla prima difficoltà. Sbuffano, borbottano, ma per poi scervellarsi e provare ancora. Questa prova dura da poco più di una settimana, e, in ogni caso, sto rivedendo anche la gestione quotidiana e di branco dei miei cani. Non so se funzionerà, ma ritengo probabile che nei prossimi giorni scriverò di nuovo per aggiornarvi sui progressi. Intanto, sotto con il lavoro. A presto! Cinzia

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